mercoledì 15 aprile 2009

Spike Lee - Clockers

Clockers è un romanzo di Richard Price incentrato sulla figura del dective Rocco Klein, agente anziano in perenne disagio tra i suoi colleghi, con una vita coniugale a pezzi e con un attore alle costole, pronto a rubargli le espressioni per le scene giuste. Klein inciampa in omicidio - quattro colpi per un nero che vende hamburger a Brooklyn - e finisce per cadere, come in tutti gli inciampi, non nel punto esatto in cui comincia la deriva… tra i Clockers, appunto. Spacciatori di crack, attivi ventiquattro ore su ventiquattro, pronti a tutto pur di svoltare.

Martin ScorZese comprò i diritti del romanzo e, deciso a dirigerlo, lavorò, con lo stesso Price, sulla sceneggiatura per un anno salvo ripensarci e limitarsi al ruolo di produttore. Credo funzionò più o meno cosi: deciso a non dirigere i lavori chiamò un assonnato Spike Lee che tra un paio di fuck e shit gli disse che c’avrebbe pensato… e ci penso sul serio. Spike Lee cambiò il punto di partenza, girò la telecamera e la puntò su Strike, figlio del ghetto, clocker incallito, attratto dai trenini elettrici, dal latte al cioccolato e dal gangsta rap.

« Puoi cacare positivo a schizzo, ma questo cazzo di mondo non è positivo, è negativo e tutto questo sesso e violenza non fa che far vendere più dischi. »

Clockers è un insieme di sequenze, casi e situazioni, dove la gente non fa altro che scendere, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, girone dopo girone, tra le braccia di Satana, abbracciati alla propria croce sempre più pesante.
Nasci buono e diventi cattivo; nasci cattivo e infondo sei un buono; nasci buono, rimani buono e finisci per diventare cattivo… un cattivo cadavere, per la precisione. E’ la vita del ghetto, le conseguenze della vita di strada. Tyrone è un dodicenne sveglio e gentile e gentile in un posto del genere vuol dire sfigato. Tyrone decide di cambiare la sua vita, si sceglie un maestro di vita, di vita cattiva. Il maestro è Strike, il clocker che alza 1500 dollari a settimana, che non fuma crack perchè per lui conta solo far grana. Tra i due c’è affetto, compassione per la vita violenta messa in onda e nella quale sono protagonisti. Rocco s’incolla al culo di Strike, a quello di Victor (il fratello, quello vero, di Strike) e inciampa in quello di Tyrone.

Spike Lee è uno sveglio e uno sveglio che le cose le ha viste, le ha conosciute e chi si è fatto conoscere dalle cose stesse sarà sempre uno sveglio al cubo. Un sopravvissuto, uno con lo sguardo magari sornione, ma che non si lascia fottere dal primo arrivato. Non ci sono buoni o cattivi, non ci sono bene o male… c’è la vita e quello che la vita ti costringe a fare e la vita del ghetto non è rose e fiori. Clockers è una telecronaca fatta ad immagini di quello che succede a nascere in un posto che ti seleziona giorno dopo giorno, gesto dopo gesto. A muso duro pronto a sbatterlo su qualcosa di ancora più duro.

Clockers comincia con una sequenze di foto di ragazzi neri morti ammazzati, con pallottole che li trapassano da parte a parte, freddi sull’asfalto freddo di New York. Come lo stesso Lee disse: « È rivolto agli abitanti del ghetto di New York. Ho voluto tirar fuori le loro contraddizioni per far capire che nascere neri e poveri non significa necessariamente nascere gangster, spacciatori, drogati, ballerini o rapper, ma che si può perfino studiare, avere un lavoro, metter su famiglia. »

martedì 14 aprile 2009

Bon Iver - Blood Bank (2009)

Dietro un augurio volutamente sgrammaticato si nasconde Justin Vernon, biondo omone proveniente da Eau Claire, piccola contea del Winsconsin premiata nel 2007 come una delle cento migliori comunità per la popolazione giovanile. Dalla noia, considerando che questi premi non sono mai frutto del caso, sembra che pure Eau Claire voglia scappare in Canada.

Era il 2007 quando "For Emma, Forever Ago" bussò alla mia porta. Uno di quei dischi che non ti aspetti, da camino mentre fuori nevica, suonato in un punta di piedi su un pavimento scricchiolante. Uno di quei dischi che soddisfa, ma non completa, che ti lascia pensare al continuo della storia che è irrimediabilmente finita.

I due anni fisiologici sono passati, attendevo un disco, era lecito aspettarselo e invece no. Bon Iver invia al mondo questo sanguinolento Ep: "Blood Bank", edito dalla scaltra Jagjaguwar che oramai ha tra le sue file tutti gli artisti che colpiscono la mia curiosità e il mio portafoglio (singolare non frutto del caso).

Quatto canzoni per nemmeno diciassette minuti di musica nei quali Justin cambia rotta: più attenzione alla forma canzone, meno falsetto e quindi rinuncia parziale ai due ingredienti che maggiormente caratterizzavano la musica e la composizione di quelle ballate che si sgretolavano al sole, fatte per essere ascoltate in solitudine.

Io ho trovato il mio nuovo Neil Young, forse un po' più romantico e meno eroe romantico, ma se fossero tutti questi i problemi nemmeno l'avrei un portafoglio.

Bomb the Music Industry! - Scrambles (2009)

Da quando il mio giradischi ha ripreso a girare sono diventato una persona migliore, me lo sento. Non solo il rito mi calma, mi gusto i testi e l'immagine di copertina salta agli occhi, ma mi sono proprio calmato come ascoltatore. Non so se mi spiego, insomma, ma il mondo che gira a 33 - un po' elitario di questi tempi - profuma di polvere e tra la polvere ci sto da Dio. Da quando il mio giradischi ha ripreso a girare io mi sono ripreso. Fuori dai coglioni Ipod, cuffiette, file e robe del genere. Me ne vado in giro per il mondo ad orecchie aperte aspettando d'aver 40 minuti liberi sul serio per concedere i miei gangli emarginati alle note di qualcuno prestandogli la dovuta e sacrosanta attenzione. In questa nuova veste di duro e puro mi ci vedo bene e lì sarei rimasto se non fosse stato per un nome altisonante e programmatico con tanto di punto esclamativo finale: Bomb the Music Industry!

Un collettivo musicale di 26 elementi che regala i propri dischi dal loro sito web, attivi dal 2006 e dotati di quella coglionagine così spontanea e genuina che quando c'è diviene basilare. Dicevo: se un giorno dovreste trovarvi ad un concerto dei Bomb the Music Industry! non esitate a salire sul palco che loro non esiteranno a cedervi i loro strumenti. Tra coglioni ci s'intende a meraviglia. E già!

Questo "Scrambles", datato 2009, è fresco, ballabile, solare, pazzo. In "Scrambles" si centrifugano tutti i generi possibili e immaginabili - dallo Ska al cantautorato indie-americano fino al Hardcore più ostentato e volgare, passando per l'elettronica alla Super Mario - senza alcuna coerenza, con cattivo gusto e tanto divertimento. Il tutto suonato splendidamente alla velocità della luce, con intensità e prontezza di spirito che di questi tempi è già un lusso.

Se siete di buon umore e i vostri dischi dei Pavement hanno ormai i buchi sostituiteli con i nuovi coglioni del giro. Vi farà bene.

Bonnie "Prince" Billy - Beware (2009)

I dischi di Bonnie “Prince” Billy ti entrano in casa senza farsi notare. Si insinuano, ascolto dopo ascolto, tra le mura e li rimangono per molto tempo. Il tempo necessario perchè il Principe, con la sua faccia da nobile in decadenza, dia alle stampe un nuovo disco in questa sua frenetica attività che non si sa bene a cosa porti.

“Beware” è una leggera danza, un movimento di capo, un’oscillazione. Scritto con la voglia di intrattenere, di far passare bene la primavera, ma con il buio dentro. Con quella sottile malinconia che lo rende perfetto per un viaggio in treno mentre si osserva il mondo silenzioso sfilare via attraverso un finestrino.

Ecco “Beware” con quella “You Can’t Hurt My Now” e la sua steel guitar che ti si stampa nella orecchie e che, con quei ticchettii di xilofono, che impreziosiscono il tutto, ti fa sognare le Hawaii e le relative abitanti; che ti da forza con quella stupenda ballata sospesa e lanciata in un ritornello, che risponde al nome di “My Life Work”; con quella “You Don’t Love Me” che ti costringerebbe ad invitare una dolce fanciulla da saloon a ballare... se mai ce ne fosse una a tiro e in tiro; che ti attira a se con i sottili lamenti di sottili violini - che provengano dalla stanza accanto o da un mondo lontano poco importa - di “You Are Lost”; con quella sottile malinconia dai toni distesi e da passeggiata a finestrini calati, con il sole che bacia il viso e le maniche dalla camicia a quadroni rigirate sui gomiti, perfetta per le note “I Don’t Belong to Anyone”; con quella gioia sonora di “I Am Goodbye” che mai riuscirò a smettere di cantare. Ecco “Beware”, disco di compagnia, come una dama per il Principe.

Come un “Harvest” scritto con l’umore di “On The Beach”, con tanto di copertina che omaggia “Tonight’s The Night” e il baffone tedesco. Questo è “Beware”: il disco di questo inizio anno che ha monopolizzato i miei timpani, distendendo i miei nervi e attentando quelli dei vicini.

venerdì 27 marzo 2009

Roberto Saviano a Che tempo che fa.

Non ne sono sicuro, ma sono convinto che ci sono momenti e manifestazioni che fermano il tuo tempo. Lo fermano e ne diventano il simbolo. Immagino mio nonno ascoltare l'annuncio che la Guerra è finita, che può uscire dal tunnel di Fuorigrotta dove dorme con la famiglia, che è scampato ai tedeschi e alla fame degli scarafaggi. Immagino mio padre, con il naso attaccato al televisore, guardare Neil Amstrong che salta sulla spiaggia di Varcaturo, schivando assorbenti e rifiuti tossici, facendo credere a tutti che gli abitanti della Luna sono pure loro degli incivili.

Mi sono sempre chiesto cosa significa trovarsi di fronte al proprio momento. Con una pistola puntata alla testa ti senti arrivato al momento, alla resa finale, all'ultimo quadro... quello con il mostro difficilissimo da superare. Non pensi alla tua vita, non ti passa la vita davanti agli occhi in uno di quei flashback da film di terza mano. Non hai il tempo di far nulla, non riesci a parlare, non pensi, non fai nulla se non cagarti addosso dalla paura. Quando mi trovai con una pistola puntata addosso tutto quello che feci fu guardare il fiato che mi usciva da bocca e che diventava nuvola con il freddo. Se fossi morto sarebbe stato solo il mio momento e nulla più. Perchè? Perchè le persone come me hanno solo una cosa da barattare: il corpo. Nessuna parola, nessun gesto. Solo il corpo: questa è la mia merce.

Il segno di questa mia generazione, l'educazione, la fine che ci spetta, l'abbiamo ricevuta da piccoli. E' il 17 luglio 1994, è il mio onomastico, Roberto Baggio in quel momento è la persona più vicina a Dio. Mettete la palla sul dischetto, tutto quel che deve fare è segnare l'ultimo rigore. Non lo fa, sbaglia. Sul più bello il mondo ti crolla addosso, tu non puoi farci niente e a che serve dire che se pure avesse segnato si doveva continuare? A nulla: si ha occhi e orecchie solo quando servono, solo quando c'è da indignarsi. Ero piccolissimo, piansi, nel mio letto, tutta la notte. Me lo ricordo come se fosse successo ieri.

Saviano entra in scena. Guarda nell'obiettivo, si muove, si tocca il naso. Ha i pantaloni disordinati, un po' più grandi del dovuto, non scendono bene e a me sembra una cosa non frutto del caso. Roberto Saviano non è un romanziere, la scrittura è un esercizio di stile e Roberto stile non ne ha. Roberto ha solo una montagna di merda poggiata sullo stomaco che gli spinge le parole fuori. Ha delle parole in gola che lo strozzano, la manovra di Heimlich gliel'ha fa la merda. Roberto Saviano danza sulla scena in modo frenetico, il cameraman lo segue a fatica. Roberto ripete Gomorra. Non gli stessi concetti, ma solo lo stesso processo. Parla, spara, comunica le cose che in questi tre anni di alienazione si sono scontrate nella sua testa e nella sua non-vita. Ha gli occhi stanchi, lo vedo, ma non ci si ferma a metà: ai calci in bocca ci si va incontro. Ripete vorticosamente, come in un rosario, 'terra mia', 'la mia terra', 'il mio territorio', 'nel mio territorio'. Roberto Saviano non è scappato. Quando nasci con lo schifo negli occhi, quello schifo ti rimane sempre davanti agli occhi. Racconta, s'indigna, il mondo intero si è fermato sulle sue labbra, in balia delle sue parole. Il mondo intero si è fermato per osservare, per sentire, il dolore, l'angoscia, la noia che costituiscono la vita di oggi di Saviano, del Saviano controllato, ma così uguale alla vita di prima... è il nascere che non ci voleva, direbbe uno sveglio e con gli occhi spiritati.

Mi sento stanco come un vecchio e arrabbiato come un quindicenne. Sono un vecchio arrabbiato che per una volta, per una sola volta, è tornato a sentirsi bambino. Il perchè non lo so, so solo che, come quando Roberto Baggio sbagliò il rigore, mi sono rigirato nel letto, le lenzuola a darmi fastidio e qualche lacrima a tamponare la fodera del cuscino. Quindici anni di coscienza cancellati in due ore... Le parole che avrei voluto dire sono state dette, finalmente qualcuno prende il mezzo televisivo, scende dalla cattedra e dice, racconta. Sono vivo, lo sento. Ho visto, ora scrivo, domani ricorderò.

Grazie Roberto.

giovedì 19 marzo 2009

Roberto Saviano, Cèline, Napoli, i rifiuti, il Veneto, la terra mia.





Pino Daniele - Terra Mia (1977)

Era il 1977 e la Napoli di quell'anno non la immagino, non ci riesco, ma ne immagino i volti. I capelli ricci di ragazzi avvolti in total-jeans da brividi, le Superga bianche a macchiarsi d'asfalto, le vespe blu che schizzano nel traffico, tutti poi riuniti nei film di Troisi. Questi ragazzi presi in mezzo, tra il futuro terremoto e i rimasugli del colera, così lontani dall'esplosione del punk, ma con il "No Future" irrimediabilmente tatuato sulla fronte.

Nel 77 Pino Daniele aveva ventidue anni, dei capelli vaporosi, un grosso faccione, e del punk non ne sapeva nemmeno l'esistenza. Non so quale fu l'intento che lo mosse, so solo che prese la sua chitarra e cominciò a descrive la Napoli che lo circondava e finì casualmente per fare il primo disco di punk italiano.

"Terra Mia" è il "The Dubliners" dei napoletani. Tante storia di vita (o non-vita) vissuta che s'inseguono e si completano a vicenda fino ad arrivare ad una conclusione (o non-conclusione) ciclica, terribile, che pesa sulle coscienze del singolo oramai definitivamente alienato dalla restante parte del mondo che si è chiuso, arroccato, su se stesso. "Terra Mia" è il modo che un napoletano si prende per parlare di sè e della propria vita: contenuti terribili, che spezzano le schiene, ma posti con un sorriso in quel dolce-amaro che Napoli ti obbliga ad imparare a suon di cinghiate e calci sui denti. "Terra Mia" è la quintessenza del marxismo-qualunquista che solo in questo luogo (o non-luogo) può germogliare. "Terra Mia", nei suoi pregi e nelle sue bestialità, è Napoli e il Gennariello che in copertina offre una zolla di questa terra sta dicendo che non è necessario esserci per conoscere le cose di questo mondo, di Napoli. E' necessario esserci solo per farsi conoscere dalle cose, per farsele crescere addosso come funghi, per sporcarsi della realtà.

Domani Andrea discute la tesi. Una settimana e scapperà in Belgio. E' finita... uno alla volta ce ne andremo tutti. Gli ho preparato un biglietto. Gli ho scritto: "Barres, nazionalista, reazionario francese, scrisse: "non vi è libertà di pensare. Io non posso vivere che secondo i miei morti. Essi e la mia terra mi comandano una certa attività." Non dimenticare la selezione naturale alla quale hai partecipato."

Il disco è finito, sollevo la puntina. Ho una cosa in gola... Il bigliettino lo allego ad una copia di "Terra Mia" ...che gli ricordi chi è e da dove viene, dove è cresciuto e chi l'ha educato. Pure a Bastogne un napoletano rimane pur sempre un napoletano.

Louis-Ferdinand Céline - NORD

E allora tu, lettore ignorante e muto come una bestemmia, cosa ti aspetti da questa pagina? Cosa ti aspetti dalla tua vita del cazzo, dalla tua televisione del cazzo, dal tuo lavoro del cazzo, dalla tua istruzione del cazzo, dalle tue droghe del cazzo? Te lo dico io? No, io no. Trovo più piacevole vederti con la camicia rigirata sui gomiti, chino, a cercare in questo pozzo di merda lo smeraldo che t'hanno promesso. Io ti lascio così, sto aspettando i pop corn per gustarmi lo spettacolo, prima che venga il mio turno di rigirarmi le maniche della camicia. Ci pensa lui a dissipare i dubbi. Pensa lui a tutto. Lascialo fare, evita i tuoi giudizi morali da mediocre e lascialo libero di vagare. Ci pensa lui. Il rifiutato, l'odiato e oggi incredibilmente alla moda Louis-Ferdinand Cèline. Ci pensa lui a dirti che gli fai schifo, che gli fa schifo la tua vita, che gli fa schifo questa vita in cui è stato condannato a non essere una lurida puttana, a rifiutare parcelle, ad odiare le stesse persone che aiuta, ad aver sempre qualcosa d?intelligente da dire.

Il Medico Malato: Louis-Ferdinand Cèline.

Cèline ai margini della vita e della sua vita. Pazzo, imbottito di pillole, con tre pantaloni uno sull'altro tenuti su da una corda, circondato da animali, rinchiuso nella sua casa-cripta di Meudon, mentre il mondo fuori invoca la sua fucilazione, mentre gli profana la tomba della madre. Un solo anno prima di morire.

E allora tu, lettore X, cosa vuoi da Cèline, ma soprattutto cosa sei disposto a capire, ad imparare, da Cèline? Cosa accetterai di questo "Nord"?

Tre persone, più Bebert, con il 75 bis al culo che raccolgono tutti i frutti amari che hanno a disposizione. Via dalla Francia mentre le folle inferocite e disgustate pisciano sulla loro moquette. In Germania, a Berlino con i palazzi che vengono spruzzati fuori dai loro balconi. Un SS si occuperà di te, sei già compromesso schifoso avversario delle razze, putrido collaborazionista. Sai che danno!?! Rifugiati in un paese dove ti salutano al grido di "Porco Francese", guardando al Nord illuminato dal notturno cielo... rosa per le bombe.

Un'attesa inconsapevole, come la vita. La vita passata aspettando, aspettare passando la vita. Una prosa distrutta, desolata, dolorosa, bombardata per un uomo che si sentiva come il soffitto di una chiesa bombardata. E allora tu, lettore comodo e presuntuoso, con i tuoi giudizi avventati e stupidi, cosa farai una volta finito "Nord"? Lo vuoi un consiglio? Non leggerlo.

martedì 24 febbraio 2009

Vita e ricette di Giuseppe Scatapecchia, anonimo napoletano.

Ogni mattina noto nello specchio sempre la stessa ruga che grida al mondo che qualche volta devo pure aver riso. Non é brutta, da fascino, un contrasto sull’apocalittico, ma non ricordo chi me l’ha fatta. Era in Vanilla Sky che si diceva che ogni rivoluzione parte dallo specchiamento mattutino? Possibile che pure a Cameron Crowe é capitato di dire qualcosa d’intelligente? Vanilla Sky lo vidi in un ex-cinema porno dove la comunità gay andava a rimorchiare. Oggi é un supermercato e non é chiaro chi ci rimorchia. I tempi di Vanilla Sky erano i tempi in cui chi era più a sinistra di me si ritrovava alla destra di Gesù.

La mia carriera politica cominciò al fianco di mio nonno - compagno esperto con tre falangi perse nella lotta di classe e un tumore alla prostata che testimonia che non tutti i giorni scioperava. Lui stava alla cassa del banco “Sasicce Bone” della Festa dell’Unità di Fuorigrotta e io sul retro. La sua fede incrollabbile cadde sotto il peso dei baffetti di Occhetto perché davanti a un viso del genere pure i pensieri si trovano altro da fare e il nostro banco, tacciatto di “astrattismo”, finì sostituito dal banco “Zeppole pe tutti”. Gli anni passarono, il Napoli si trasferì a Parma, poi arrivarono le Spice Girls a farmi sentire abbastanza virile da iscrivermi al Partito Marxista-Leninista Italiano e l’uomo non fu più uomo, ma divenne compagno. L’attività preferita dei compagni era la riunione -pratica orgiastica dalle indubbie qualità soporifere- che cominciava con l’analisi del prodotto lordo cubano e finiva con la conta delle aste delle bandiere per la prossima manifestazione. Mi allontanai dal partito quando cominciai a seguire la scia di Roberta e accecato dalla voglia di azione, frutto della mia maturazione ideologica, mi iscrissi ai Giovani Comunisti. Numerose riunioni mi insegnarono diverse cose: quando una donna ti chiede una sigaretta non é detto che voglia scopare con te; quando una donna dice “no, domani non posso” non risponderle “e dopo-domani?”; quando una donna risponde “no” é perché voleva dire di “no”.

Il Marx-Engels forum é una piccola piazza silenziosa, tutta grigia, che si confonde col cielo di Berlino. Il Palast der Republik deve morire. Pochi giorni é sarà solo travi senza senso. Ho fatto in tempo a vederlo intero, tutto sano nonostante tutto. Alla mia adolescenza ho legato il Palast der Republik prima di lasciarla cadere nella Sprea. Mentre affondava nell’acqua verdastra ha gridato: " Dite a Roberta che la ruga non é sua."

mercoledì 11 febbraio 2009

Friedrich Schiller - I Masnadieri (Die Räuber)

Il bene e il male che si fondono, si mescolano, si rotolano assieme. Il bene e il male che si sporcano ognuno dei colori altrui fino a cancellare i bordi, perdendo il senso di tutto quello che la vita insegna. Angoscia per quello che si dovrebbe essere e pena per quello che si è. Quando Schiller - assalito dallo Sturm und Drang, con Shakespeare e Rousseau nel cuore - scrisse i Masnadieri aveva la mia età. C’è forza nelle sue parole. Tanta violenza e tanto amore, tanta voglia di vita e tanta voglia di prendersela ad ogni costo. Mi mette a disagio pensare di aver potuto proseguire per la mia strada senza averlo letto. Mi intimorisce pensare che tutto quello che avrei voluto dire e fare è stato già scritto e detto in questo dramma tedesco che pretende Kant e la sua fase critica, che pretende Nietzsche e Dostoevskij.

La forza di essere se stessi, nel bene e nel male, con pregi e barbarie, alla ricerca della propria dimensione, della propria terra, del proprio angolo in cui ripararsi dal mondo. Il mondo, il mondo cinico e cattivo, svincolato dalla morale, perso nelle sue perversioni e nella propria cattiveria. La rivolta per sentirsi vivi e pulsanti, per infrangere la barricata che il mondo frappone tra noi e la nostra felicità, per alzarsi sulla folla sempre uguale, ieri come oggi. Un fratello cattivo perso nell’utile, assetato di poteri che non ha e che non potrà mai avere. Accecato dall’invidia esilia il fratello per uccidere il padre, attenta i cuori delle amanti. E’ brutto Franz. Il suo cuore lo rende brutto, schifoso, mentre Karl vaga per il mondo, bello come un Dio infelice, e uccide chi crede di dover uccidere, come il suo cuore tradito gli impone di fare. Tenderà al bene pur sapendo di non coglierlo mai. Potrà sfiorarlo, ma non arriverà mai a prenderlo perchè ogni azione morale è incatenata al diritto positivo e profano che l’uomo decide di condividere. Le sue previsioni tutte errate, il suo stesso essere errato. Allora Karl, col capo chino, ucciderà un’ultima volta. Ucciderà il proprio cuore prima di uccidere quello che è stato.

Quando scrisse queste parole sapeva che l’avrebbero segnato. Nessuna rappresentazione, la plebe non capirebbe, nessuno è mai pronto per assistere alla desolazione della propria vita, ma poi si lascia convincere dagli eventi, dal successo. Ci sarà una prima, tutti alla prima che soltanto una prima resterà. Schiller in catene, arrestato. Gli viene proibito di scrivere altre opere teatrali. C’è troppa forza nelle sue parole.

Mi ero ripromesso di non pubblicare mai più niente a mio nome, ma Schiller ha preteso, mi ha imposto, queste parole - belle o brutte non importa nulla. Non potevo tacere, non potevo rimanere indifferente al suono che le sue parole, scontrandosi, hanno nella mia mente. Nessuno rimane indifferente a Schiller, al suo inno alla vita e all’impossibilità della vita. Bene o male è solo un inno alla gioia. L’inno alla gioia nato dall’assoluta potenza che le parole di Schiller impressero nella fantasia di Beethoven, a lui come a tutti gli altri.

Fratello... Io ho visto gli uomini, le loro preoccupazioni da api e i loro enormi progetti... i loro piani divini e i loro affari da topi, la loro strana e maravigliosa corsa alla felicità; uno si affida allo slancio del suo destriero, un altro al fiuto del suo asino, un terzo alle sue stesse gambe. Questa multiforme lotteria della vita nella quale alcuni puntano la loro innocenza e il cielo stesso per acchiappare il numero vincente... Ma vengono estratti degli zeri... e alla fine di numeri vincenti non ce ne sono. E' una commedia, fratello, che ti fa uscire le lacrime dagli occhi mentre ti fa venir voglia di ridere.

domenica 18 gennaio 2009

martedì 13 gennaio 2009

Louis-Ferdinand Céline - Casse-pipe

Ci sono le cose fatte per non essere colorate. Il mondo è una di esse. Tutto nero, tutto stanco, le case che si aggrappano ai propri balconi, le macerie che si allungano come cicatrici per quel che rimane della vecchia Europa. Spruzzare colori sulla vita è mentire. Tutti mentono, per fortuna. Un mondo senza bugie sarebbe sicuramente un mondo molto più noioso.

Non ho bisogno di amore, non bisogno di nulla. Ho bisogno solo di una fioca luce che guidi il mio cammino lungo questa notte.

E' tutto nero, un lume di candela illumina quel poco che rimane di ancora vivo nella vita di uno stanco ventenne che, annoiato dal mondo, eccitato da qualche bicchiere di troppo, stanco di affidarsi ai soldi dello Zio materno, con un suicidio ancora sotto gli occhi, decide di arruolarsi nell'esercito francese e partire per la prima grande Guerra.

La candela illumina l'elmetto del brigadiere Le Mehu, lì, con i gomiti sul tavolo, in fondo alla stanza. Tra lui e il ragazzo un pavimento di carne e un puzzo d'altro mondo.

-Brigadiere! E' arruolato!
-Che entri sto coglione.

Le parole più dolci che gli saranno rivolte in questa lunga notte.

Perchè poi ti sei arruolato? Sei mai stato cocchiere? Sarto di mestiere delle volte? Ladro, il mio giovinotto? Acrobata per caso? Sei mica palafreniere neppure? Profumiere per chiudere? Carbonaio allora? Arrotino? Allora che cazzo vieni a fare al 17° cavalleria pesante? Eh? Sai mica neanche te gradasso? C'è più niente da mangiare a casa tua? E' venuto giù il forno?

Non c'era nulla da rispondere. Nulla da rispondere a quella merda di Rancotte. Si picchiettava col frustino sui rinforzi del pantalone. Ogni tanto mollavo due rutti in faccia al ragazzo venuto da Parigi.

Il battaglione fuori nella notte, il vento che viaggia dal basso verso l'alto, il freddo che offende le giacche, le pioggia che piega la schiena. Nella notte per una parola, una parola persa e mai più ritrovata... sarà arrivata, con un po' di fortuna e con il vento a favore, in Germania. Il cambio di guardia rimane in canna, la parola è volata di nuovo via. No, non è Margherita. Non è il nome di una battaglia. Le Mehu si agita, Rancotte gli farà lo scalpo. Tutto il battaglione chiuso in una stalla a bere vino vendutogli dallo stalliere e Mehu che si rigira nel buio sperando che Rancotte sia cosi ubriaco da non vederlo.

Ci sono cose che vengono fatte per essere rifiutate, maltrattate, strappate. Louis-Ferdinand Céline è tutto questo e anche altro.

Allora la trovate porco di Dio! Dov'è che è la vostra parola bandito?

sabato 10 gennaio 2009

Dio di concerto, Dio di serata!

Parts & Labor - Mapmaker (2007)

Io sono uno di quelli che certe cose si sforza di non capirle. Una di esse è il termine Noise. Mettiamo che a me piace il Noise, bene, dove finisce la canzone e dove comincia la realtà? Se mi piace il Noise, girando per strada ascolterò ogni giorno un disco involontariamente composto da un sornione automobilista intento solo ad accellerare il più possibile? Potrò mai invocare la morte del vicino intento a martellare (anche i coglioni)? Boh! Io credo che il Rock tutto abbia una componente nazional-popolare che lo fa tendere tutto alla canzone, alla compostezza anche se apparentemente sgraziata.

Bene, i Parts & Labor ad occhio e croce sembrano i nuovi futuristi scesi dall'Olimpo per portare a noi comuni mortali dell'Avanguardia (Ohhhhh), la fiamma sacra, necessaria per la redensione dell'uomo dopo il peccato originale... sbagliato. La verità è lontana, molto lontana. Questi Parts & Labor sono solo il vecchio che avanza, sono l'attualizzazione di qualcosa che è stato e successo riproposto in modo originale e fresco.

Prendere l'Hardcore annata 84 e portarlo al 2007: via chitarre, via distorsioni, via urli rochi e disperati (in pratica tutto quello che uno poco avezzo a leggere tra le righe ritiene indispensabile per l'Hardcore) e dentro due synth e tanta melodia ed ecco che il vecchio diventa nuovo senza inventare nulla.

"Mapmaker", stampato nel 2007, è pura dinamite posta in sequenza che esplode in armonia alla velocità di 200bpm facendoti esclamare un "finalmente, qualcuno lo fa". Suonano come una spranga di ferro infilata tra i raggi di questa ruota che tutto contiene... batteria furiosa velocissima, synth, bassi in libertà, voce che sembra registrata mentre il cantante era appena passato dal letto ai cereali.

Io odio la gente che fa Hardcore facendo finta che i gruppi della SST non hanno mai distrutto e ricostruito la musica, che si pongono come nuovo quando di nuovo hanno solo le Vans con la pianta larga e, cosa non da meno, odio l'Avanguardia (Ohhhhh) fine a se stessa (ma non solo).

Bene, questi Parts & Labor mi soddisfano non poco. Concettualmente ci conosciamo senza vederci e ricordate: MINUTEMEN!

venerdì 9 gennaio 2009

Hell Demonio - Discography (2008)

Se c’è una cosa che si attacca alle pareti dello stomaco e proprio non se ne scende è lo sforzarsi di dire sempre cose intelligenti. Si sa, sforza che ti sforzi si finisce per sforzarsi troppo e ci scappa una scorreggia. Meglio fermarsi un attimo e comportarsi da animali. Magari l’avesse capito un Sartre (l’articolo determinativo non è un caso), fortuna che esistono gli Henry Rollins.

Ecco, se un gruppo decide di chiamarsi Hell Demonio e intitola il primo disco “Greatest Hits” e il secondo “Discography” già ha capito su che lato dello stomaco martellare… e martellare sul serio, mica bruscoletti. E come si finisce? Si finisce riconciliati con se stessi. Ah, mo si che sto bene!

“Discography”, pezzo numero 100 del catalogo Wallace, numero 7 di quello della RobotRadio, ha dato un senso a questo 2008 un po’ distratto. Hardcore (Post-Hardcore per i più raffinati) attuale, bello e vivo, energico, che si slinguazza l’Hardrock più caciarone e volgare. Masterizzato da Bob Weston (non lo scemo del villaggio!) al CMS di Chicago. Dieci canzoni per 27 minuti... notate: i numeri sono dalla loro.

Quasi come se i Fugazi si mettessero a fare cover degli AC/DC e se contiamo i titoli delle canzoni (“Message In A Butthole”; “Mister Jesus, You Are Such A Wonderful Dancer”; “How To Enter A Church Whitin A Transparent Sphere”)… be’ se contiamo pure i titoli delle canzoni a ‘fanculo i Sartre di tutti i tempi.

Ah, mo si che sto bene!

mercoledì 7 gennaio 2009

Made Out Of Babies - The Ruiner (2008)

Abbandonata la Neurot e Steve Albini si saranno pure un po' preoccupati, mi sembra normale in fondo. Si saranno sicuramente detti: << E ora che facciamo? >> Qualcuno avrà pure sorriso, qualcun'altro, invece, avrà sorriso, ma con fare beffardo battendosi la mano sul petto mentre strizzava l'occhio... << Ci penso io! >>

Party: tutti nella sala prove dei Made Out Of Babies. Inviti a profusione per gente giusta. Big Black, Unsane, Jesus Lizard, Neurosis, Melvins e altri ciccioni tutti presenti, tutti a sorseggiare birra con l'imbuto, stipati stretti-stretti su divani pidocchiosi. Tutto okei, tutto divertente fino a che non arriva quello col sorriso beffardo. << Nessuno esce di qui fino a quando non ci fate un bel disco. Ma non un disco-dischetto... proprio un disco-disco. E ora a lavoro! >>

"The Ruiner": un disco fiquo e profiquo del 2008. Una festa dei sensi, un suono che t'incolla al muro, viulenza-viulenza! Tirato all'inverosimile, ganzo non poco. Voce femminile che non dispiace, che non disturba, enfatica come poche. Basso-batteria che fanno più casino d'una locomotiva; chitarra tritura coscienze, più sgraziata e disgraziata di quello che il genere richiede. Ti squarterà esattamente come ti squarterebbe una mazza da golf.

martedì 6 gennaio 2009

Parts & Labor - Receivers (2008)

Parts & Labor da New York: musica fluorescente per i miei condotti uditivi. Quanto hanno fatto godere i miei timpani con "Mapmaker", quanto si sono drizzate le mie trombe d'eustachio mentre facevano le porcate con "Stay Afraid". Uhhh... Uhuh

Parts & Labor da New York: gente che stampa dischi con l'etichetta più giusta del momento (la Jagjaguwar), gente che aspettavo alla porta e che si sono presentati all'appuntamento con tre ore di ritardo... zoppicando sul serio.

Finiti i vortici di synth, passato l'uragano, si sono stretti in cerchio attorno al fuoco e si sono dati tutti la mano pensando d'esser sopravvissuti al peggio. Via il batterista iper-mega-fracassone, fac-simile del cantante dei Les Savy Fav (caso umano prelibatissimo), e dentro un orientale e una chitarrista (sisi, con la A finale... nemmeno troppo carina). Morale della favola: si saranno innamorati, la preparazione atletica non avrà retto per tutti i novanta minuti, fatto sta che si sono fermati e dati al Pop.

"Receivers", stampato ovviamente per i giusti della Jagjaguwar nel 2008, è un disco fondamentalmente pop che mi ha fatto cambiare più idee che mutande. Accolto in casa come un benefattore, cacciato come un testimone di Geova. Io e "Receivers", in nemmeno un mese, abbiamo attraversato tutti gli stadi dell'innamoramento. Dalla passione iniziale alla nanna senza coccole. In fondo in fondo canzoni buone ci sono ("Satellites" e "Little Ones"), il singolone spacca timpani pure ("Nowheres Nigh"), il momento riflessivo un po' viaggione c'è ("The Ceasing Now"), quello romanticone ("Mount Misery"), che stranamente è il mio preferito, spacca. Gli ingredienti ci sono tutti... morale della favola 2.0: BOH... "Mapmaker"!

sabato 3 gennaio 2009

Folk Implosion - The New Folk Implosion (2003)

Diciamolo chiaramente: Lou Barlow è un NERD. Ha la faccia da nerd, ha gli occhiali da nerd e fa musica da nerd. Ha cominciato e finito una cosa molto più grande di lui, mentre stava seduto sulla moquette della sua camerettetta, nel silenzio generale, a scrivere d'amori nemmeno lontanamente sfiorati che poi finivano regolarmente strangolati o da uno schifosissimo quattro piste (ad avercelo un quattro piste, di quelli belli... magari della Teac) o dalle sue mani.

Sarà passato un secolo, ma nemmeno le lenti a contatto riuscirebbero a rendere Lou un pò più sveglio. Soprattutto sembra proprio che non abbia alcuna voglia di cambiare ed è questo che "The New Folk Implosion" (del 2003) documenta.

Le solite canzoncine smielate da cameretta, il solito Ringo sopra Folk e sotto Rock con crema di Pop, ma chi se ne fotte?

Questo disco è proprio bello. A tratti ti culla, a tratti di scuote, partendo dai piedi per arrivare fino alla testa, passandoti da parte a parte. Sarà la stupenda voce di Lou e il suo basso (che finalmente diventa potabile, con un tono), sarà la chitarra di Immad Wasif (Alaska! e Yeah Yeah Yeahs), sarà la batteria di Russ Pollard (Sebadoh e Alaska!) che non spreca un colpo nemmeno a spararlo, sarà che siamo tutti un pò nerd, sarà che amo i cardigan e che il cielo è blu, ma a questo disco finisco sempre per sorridere come un qualsiasi personaggio di un qualsiasi film di Cameron Crowe.

Se si è almeno un pò romantici e sentimentalmente portati il disco va assaporato in un soleggiato pomeriggio primaverile che buca le foglie di un alberata strada provinciale. Buono se si guida, ottimo se si alza anche una leggera brezza, strepitoso se si ha una sigaretta a portata di mano, fondamentale se si ha sul viso, al posto degli occhiali, dei fari rubati ad una vecchia Regata e nel cuore qualche amore irraggiungibile.

giovedì 27 novembre 2008

Melvins - Smash The State (2007)

Il titolo più chiul per un disco è certamente "Smash Your Head On The Punk Rock!". Ancora più chiul sarebbe scrivere un manuale su come smashare le teste con la musica. Una guida del genere, che ipoteticamente chiameremo "How Do You Want to Smash Your Head?", la dovrebbero scrivere King Buzzo e Dale Crover, due panzoni poco chiul e molto smash, che hanno smashato le teste in mille modi diversi... dalla vibrazione cattiva ai panzer cingolati, dalla ballata fischiettante ai deliri post-atomici.

Diciamo che nel bel mezzo di una crisi di mezza età, con l'andropausa che si fa avanti e Dale che si riporta i dodici capelli rimasti in modi che noi umani non possiamo comprendere, hanno deciso di tornare a quando avevano quindic'anni, ovvero quando erano il gruppo che correva più veloce per quel cesso di Aberdeen. Ed ecco fatto, un nuovo capitolo per il nostro ipotetico libro: "Smash the State E.P."

Pure furia cieca come non se ne sentiva da un po'. Imbracciare i propri strumenti e ridursi semplicemente a suonare il più veloce e il più forte possibile per quattro canzoni, cioè cinque minuti di musica.

Sempre nel delirio della loro crisi hanno fatto il passo successivo che rende il tutto tremendamente chiul. Vinile 7" pollici tirato in 600 copie, stampato dalla Amphetamine Reptile (incredibilmente di nuovo viva), venduto semplicemente alle date del tour... troppo chiul!

Certo, se fossero stati del tutto chiul l'avrebbero chiamato "Smash the State With Your Head" oppure "Smash Your Head On The State", ma cosa vogliamo aspettarci da due panzoni cinquantenni? Già è tanto se non si sono dati al Jazz.

lunedì 10 novembre 2008

Charles Bukowski - Pulp


"I maestri sono fatti per essere mangiati" sentenziava Pier Paolo Pasolini. Io, in tale aforisma, che sa pure di epitaffio, ho sempre visto un bel gioco linguistico. Mangiati nel senso di ingeriti e digeriti. Portati dentro di se con amore come parte di se stessi e mangiati nel senso di ignorati, snobbati, odiati. Meglio sarebbe unire le due vie. Mangiarli, amarli e poi cagarli. Partire da dove sono giunti per cavalcare il peso del loro genio... d'altronde un artista è sempre una persona poggiata sulla spalle di un gigante. Credo di aver capito che persona sono durante la visione d'un programma qualsiasi in una notte qualsiasi. Ricordo che alla domanda "Quali sono i suoi modelli politici?" la faccia di D'Alema rispose con la spocchia e la supponenza di chi non ha capito nulla della vita. In una smorfia che sapeva di incoscienza... "Nessuno" sbottò raggiante ed inorgoglito dalla forza che credeva di possedere.

"Leggi Cèline?" chiese una voce femminile. Era parecchio sexy. Da un po' di tempo ero solo. Secoli.
"Cèline," risposi, "ehmm..."
"Voglio Cèline," disse. "Devo averlo."
Una voce tanto sexy, mi eccitava, davvero.
"Cèline?" ripetei. "Mi dia qualche altra informazione. Mi parli, signora. Continui a parlare..."
"Chiudi la cerniera," ordinò.
Guardai in basso.
"Come faceva a saperlo?" chiesi.
"Non importa. Voglio Cèline."
"Cèline è morto."
"No. Voglio che tu lo trovi. Lo voglio."
"Forse potrei trovare le sue ossa."
"No, scemo, è vivo!"
"E dov'è?"
"A Hollywood. Mi hanno detto che frequenta la libreria di Red Koldowsky."
"E allora perchè non se lo trova da sola?"
"Perchè prima di tutto devo sapere se è il vero Cèline. Devo esserne sicura, completamente sicura."
"Ma perchè si è rivolta a me? In questa città ci sono almeno cento investigatori privati dritti come me."
"Ti ha raccomandato John Barton."
"Ah, Barton, sì. Be', senta. Ho bisogno di un anticipo. E devo vederla di persona."
"Sarò lì tra pochi minuti," disse.
Lei abbassò il ricevitore. Io chiusi la cerniera. E aspettai.


Nick Belane è un grasso detective privato che si porta male i suoi anni. Cinquantacinque anni poggiati sulla schiena. Testa bassa, bombetta, solitudine e alcool per sistemarsi. Una specie di lubrificante sociale. Nick Belane è un sudicio stereotipo che cavalca le strade di Hollywood in maggiolone, che litiga con tutti i barristi che gli capitano a tiro, che finirà a masturbarsi su una veranda in Arkansas. Nick Belane è come un taxi, l'ultimo taxi preso da Charles Bukowski. Destinazione? Assassinare i propri miti e padri poco prima d'assassinare se stesso. Il tempo scorre e lo s'impiega male. Tutti ad attendere qualcosa, in fila per stronzate, quando sappiamo fin' dall'inizio che di quel tempo non godremo per sempre, che bisogna muoversi prima di non riuscire più a muoversi. Bukowski raccoglie tutti gli stracci e le toppe della sua vita e della sua scrittura e li concentra in questo grande pasticcio (Pulp). Una specie di "Da un castello ad un altro" non maledetto, che cerca anche di farti ridere, di dileguare i fantasmi, di tirare le somme, sulla propria vita e sulla vita in generale, col sorriso, magari anche amaro, ma col sorriso sulla bocca. Bukowski si perde in Nick Belane per l'ultimo viaggio al termine della notte e Belane si perde nel mondo. Ci sono cose, fatti, avvenimenti, scritti, che non hanno il sapore del caso. Tutto in Pulp sa d'ultima volta, tutto ha il sapore dell'ultimo boccone, dell'ultimo inno alla sfigataggine. Pulp, come tutta l'opera di Bokowski, come ammette dalla dedica iniziale, è interamente votato all'incoscienza, a nobilitare la cattiva scrittura... e non stupisce che Bukowski mette in bocca a Cèline, qui personaggio, un c'è un unico problema... non sono capaci di scrivere. Nessuno.

Pulp, ultimo romanzo, pubblicato postumo in Italia, è un saluto a se stesso, alla propria vita, alle proprie abitudini, alle proprie ossessioni e ai propri miti.

Quindi eccomi di nuovo depresso. Ritornai a casa, entrai e aprii la bottiglia di scotch. Di nuovo con il mio vecchio amico, scotch con acqua. Lo scotch non è un liquore a cui ci si affeziona subito. Ma dopo che l'avete bevuto per un po' fa agire la sua magia su di voi, per così dire. Trovo che abbia un calore speciale che il whisky non ha. Comunque avevo le paturnie e mi sedetti in poltrona con la bottiglia vicino. Non accesi la tv, ho scoperto che quando ti senti male quella figlia di puttana ti fa solo sentire peggio. Una sfilza senza fine di visi insulsi. Una processione infinita di idioti, alcuni dei quali famosi. Gli attori comici non sono divertenti e i drammi sono di quart'ordine. Non c'era gran che a cui potessi rivolgermi, tranne lo scotch.
La pioggia aveva aumentato di intensità, e rimasi ad ascoltarla battere contro il tetto.

sabato 8 novembre 2008

mercoledì 5 novembre 2008

Yes I know my way



Dico tutto dall'inizio, senza perifrasi e romanticismo. Volo British Airways. Salgo e come sempre per combattere la mia paura del vuoto, del mondo, del fato, prendo a leggere. Ci sono libri che si digeriscono a stento, che necessitano di pause mentre ti lasci schiattare la testa da parole sparate con un bazzuka. Leggo e poggio il libro sulle gambe. Penso. Un po' è la rabbia, un po' lo schifo. Devo esser sembrato un tipo strano. Fatto sta che un uomo medio inglese, con la faccia un po' altezzosa, persa in uno di quei sorrisi che sanno di paternalismo, mi da due pacche sulla gamba e mi spiaccica un don't worry.
Mi ritrovo a girare per Londra. Piccadilly Circus è uno dei miei posti, uno di quei posti che mi fa sentire vivo... vivo con la voglia di vivere. Vado in direzione Leicester Square, giro subito a destra, appena finsice Piccadily, per Haynamarket. Teatri, musical, teatri, cinema. Mi fermo, alzo lo sguardo. C'è la locandina, due file di cinque stelline per dire che è un film che spacca: "Gomorrah", con l'acca finale che lo rende ancora più italiano tamarro. Il mio cuore s'è fermato. Ho sentito gli occhi del mondo poggiati sulla mia schiena. Anni d'abbandono, di "vita" frustata e soggiocata, che ricevevano un premio, un premio alla mia disperata vitalità che mi fa sopravvivere anche quando non c'è nulla per tirare a campare. Il primo impulso è stato quello di pagare il biglietto ed entrare, il secondo è stato quello di sorridere e tirare avanti per la mia strada. Mi sono sentito curato, cullato, riconosciuto per quello che sono ed ho tirato avanti a girare. Girare e girare.
Volo British Airways, ritorno. Mi siedo affianco ad un tipo biondino accompagnato da una ragazza orientale con la solita faccia da culo e l'aurea del minchione proprio di qualsiasi orientale. Vedo che leggo quel che leggo, sembra quasi volermi interrompere, ma non sarebbe educato. Continuo a leggere. Ad un tratto caccia un portatile da sotto il sedile, come da un fondina. Ecco le mie credenziali. Lo accende. C'è un desktop con lo sfondo di Napoli... il golfo, il Vesuvio e tutto il manipolo di case abusive. Due minuti e si mette a giocare a schacchi con i pezzi di Star Wars. Io lo guardo come si guardano i Nerd di tutto il mondo, con disprezzo. Lui mi guarda e finalmente prende coraggio. "Molto di quel libro è falso" ...ci ripenso mentre cavalco le strade bucate del Rione Traiano. Ci sono tutti i lampioni spenti, quasi a volermi mettere ancora più depressione per questo ritorno del cazzo. Sono quasi a casa, ancora qualche cumolo di rifiuti e sarò nel mio tumolo. Vorrei fosse tutto finto, vorrei... maledetti (casi umani), nonostante tutto sono ancora vivo!

domenica 26 ottobre 2008

Michael Haneke - Le Temps Du Loup (Il Tempo Dei Lupi)

Vagare sulla crosta del mondo definitivamente morto senza sapere la causa. Io sono un lupo. Lupo per tutti, compreso me stesso. Lupo ancor prima di saperlo. Accoppato il primo non c'è bontà o motivo che tenga. Che schiattassero tutti, uno per volta o tutti assieme non fa differenza. Sarà un vagare in cerca di spiegazioni, in cerca di treni che ancora solcano questo mondo definitivamente collassato. E' morto, come non lo so. Ho sentito solo lo sparo. Una guerra, una bomba atomica, forse il più pazzo di tutti è rinsanito ed ha deciso di far fuori tutti gli altri. Non so, non si sa mai niente. Vagherò giorno e notte, da solo o in compagnia, ma sempre solo sarò. Mi nasconderò tra le ruote di un vecchio treno o nel buio della notte. Non ne saprete più niente di me. Spogliare i cadaveri dei loro indumenti, spogliarsi dei propri e altrui indumenti nel cuore della notte di fronte al fuoco... il fuoco. E' lì il riparo.

Per centotredici minuti Michael Haneke schiaccia lo spettatore sotto il peso delle proprie fobie. Immaginatevi di svegliarvi domani mattina e di ritrovarvi in un mondo distrutto dove solo il più cattivo di tutti riesce a sopravvivere. Cosa fareste? Continuare a vivere sapendo di diventare esseri cattivi, lupi, per se stessi e per gli altri, o lanciarsi nudi nel fuoco come a voler cancellare tutte le proprie colpe?

"Il Tempo dei Lupi" è un film glaciale e depravato. La sua depravazione si gioca tutto sul non sapere, sul non mostrare, sull'isolare. I personaggi sono tutti isolati tra loro. Pur interagendo sono assolutamente separati, pur riuscendo ad essere ancora empatici provano compassione per il proprio prossimo in maniera razionale, mai solo dettata dal sentimento. In un mondo trasformato dove la vita stessa si basa sul massacro, non viene mostrata nessuna uccisione. Haneke si diverte a non farci sapere, a far cominciare questo film senza un motivo e a farlo finire senza alcuna motivazione. Si diverte a prendere i tratti caratteristici di questo mondo e a criticarli duramente trasformandoli in qualcosa di "non ora, non qui". Mette la pulce all'orecchio e poi ti rassicura trasportandola in un mondo diverso. Ti inquisisce e poi ti solleva con un "tu non c'entri". Haneke con questo film ha investigato e ci lascia l'idea d'aver solo immaginato.

Secoli di Diritto Naturale lasciato a macerare. L'unico diritto valido è quello terreno, quello che crea la realtà. Se ci affidiamo al libero arbitrio altrui, alla comune pulsione verso il bene, alla naturale solidarietà del singolo verso il tutto, alla ragion pura... be', il vostro cranio diventerà presto un posacenere.

sabato 25 ottobre 2008

venerdì 24 ottobre 2008

Intervista a Louis-Ferdinad Cèline








Ci deve essere una relazione positiva tra l'essere un coglione e reputare Louis-Ferdinand Cèline un fascista... relazione che mi sfugge completamente, ringraziando Dio. Esattamente come deve esserci una relazione positiva tra il non leggere Cèline e reputarlo di destra. Pubblicato quel grande capolavoro di "Viaggio al termine della notte" fu chiamato comunista; pubblicato "Mea Culpa" fu chiamato fascista; pubblicato "Bagatelle per un massacro" fu chiamato anti-semita... in verità non subito. Nel '36 quando fu pubblicato "Bagatelle" essere anti-semita voleva dire essere alla moda. Solo dopo la seconda guerra mondiale provare odio per un ebreo che ti fotteva la moglie (come accadde realmente a Cèline) divenne un gesto sconsiderato. Ci deve essere anche una relazione positiva tra il leggere, bene e molto, Cèline e trovarlo semplicemente una persona schifata dall'umanità (nonostante curasse a gratis i suoi pazienti... e si, Cèline era un medico) in tutte le sue forme. L'intervista che segue è stata pubblicata anche dal blog del partito La Destra (si, il partito fascista italiano) e io mi chiedo se sono a conoscenza delle parole di Cèline che lo contrassegnavano come anarchico. Cosa che fa rabbrividire, ma cosa vi aspettavate da squadristi con i denti rotti che si fanno ancora le seghe pensando alla conquista dell'Albania?
Siori e Siore, Louis-Ferdinand Cèline: il più grande scrittore francese, il più grande scrittore del novecento, ancora pulito dal sudiciume del soggettivismo collettivo (in culo agli stoici e ai democratici)!

1944: Cèline lascia la Francia. Contro di lui c'è un mandato d'arresto. Roger Vailland ha giurato di ucciderlo. Gli viene rinfacciata la sua collaborazione con il Nazionalsocialismo, il suo antisemitismo. Cèline fugge in Germania, poi in Danimarca, perseguitato dall'odio dei democratici, dal disprezzo di Jean Paul Sartre. La sua stessa opera è dimenticata. Cèline ritorna in Francia solo nel 1948. Continua a scrivere ma è circondato dall'ostilità generale e si ritira con la moglie Lucette e i suoi numerosi cani e gatti in una casa a Meudon. Ed è qui che riceve il giovane universitario belga Marc Hanrez per l'ultima, straordinaria intervista. (Frigidaire n.8-9 luglio-agosto 1981)

Hanrez: Vorrei farle alcune domande a proposito dell'aspetto mistico della sua opera, un aspetto che non è ancora stato trattato dalla critica. Secondo me, una concezione mistica della vita si può trovare nei passi più fiabeschi del "Viaggio al termine della notte", in " Morte a credito" e in altri libri…

Cèline: Ci troviamo a lato del problema. Se mi è consentito vorrei dire che vedo la cosa un po’ diversamente. Tutti noi abbiamo il desiderio di penetrare questo mistero di cui lei parla, e a cui pittori e disegnatori si avvicinano più degli altri. C'è la linea, questa famosa linea: alcuni la trovano nella natura, gli alberi, i fiori, il mistero giapponese… Bisogna bene che ci si confronti tutti con la natura. Io, devo confessarlo, non ne sono poi così fiero, mi sono molto occupato del corpo umano, nella mia posizione d'anatomista, come esperto di dissezione. Amo molto la dissezione. Non è una mia invenzione, non sono certo il primo tizio che è affascinato dalla dissezione... Ma non è tutto, anche la forma vivente mi interessa. E' per questo che durante tutta la mia vita ho perduto… no, non ho perduto, ho passato molto del mio tempo intorno alle ballerine, perché volevo avvicinarmi alle linee e ai corpi che cerco (cosa che è esposta in "L'Eglise" e in "Fèerie"). La ricerca di questa linea astratta: un movimento di danza mi rende raggiante! Ne parla anche Valery, ma con volgarità. C'è gente che non capisce queste cose: Io mi sono personalmente educato a lungo a questo riguardo. Ero povero e mia madre era merlettaia. Avevamo delle clienti, io ero impressionato dalla loro bellezza fisica e m'interessavo moltissimo a loro, nella nostra infelicità (perché Dio solo sa quanto lavoravo!). Eppure non ero certo spinto in questa direzione. Tuttavia mio padre - era un disegnatore - aveva anche lui la tendenza a ricercare le linee… Per un uomo comune questo è solo un atteggiamento da porco. C'è, infatti, un lato erotico in questa smania d'osservare. E' l'istinto della riproduzione che si fa strada (cerchiamo di essere sinceri, non vorremmo certe pretendere di essere puri), ma c'è anche dell'altro. D'altra parte le disgrazie e i difetti fisici mi allontanano dal corpo umano, dalla persona…

Hanrez: Nell'opera "Entretiens di Robert Poulet", lei dice che la maggior parte degli uomini che la circondano sembrano dei morti. Che cosa intende con ciò?

Cèline: Si occupano di questioni volgarmente alimentari o aperitive; bevono, fumano, mangiano, in un modo tale che sono usciti dalla vita - per la vita. Digeriscono. La digestione è un atto molto complicato (di cui conosco il meccanismo) che li assorbe completamente: il loro cervello, il loro corpo…Essi non hanno più niente, hanno solo la pelle. Basta mettersi alla terrazza, guardare le persone: al primo colpo d'occhio, lei riconoscerà tutta una serie di distrofie, di volgari invalidità. Sono laide, penose da vedere! Sono orribili in tutti i paesi del resto. Ed io lo posso dire, visto che sono stato in molti paesi: ero in missione per la sezione d'igiene della Società delle Nazioni. Gli uomini li vedo totalmente assorbiti dalle funzioni bassamente digestive. E' l'istinto di conservazione (ci sono due istinti nell'uomo: la conservazione e la riproduzione…). Si abbuffano dieci volte più del necessario, bevono dieci volte di più di quanto dovrebbero; non sono altro che apparecchi digestivi. Molto a fatica lei potrà trovare un essere al fondo di questa zuppa alcolica e fumosa…ma non è interessante. Si ha a che fare con dei mostri.

Hanrez: Lei sostiene che l'individuo perde la sua coscienza.

Cèline: Assolutamente. Sia che si tratti di francesi, o di negri, o di gialli, o di rossi, l'istinto di conservazione li domina. Essi ne sono avviluppati, hanno chiuso… Basta qualche chiacchiera, qualche farfugliamento, delle grandi vanità, una decorazione, delle accademie: ed eccoli soddisfatti. Soddisfatti in una certa misura… Hanno sempre, in fondo, il gusto del circo romano. Gli uomini sono ancora incantati quando vedono altri battersi a sangue, quando assistono a torture. Ho sempre sostenuto che il teatro e il cinema annoiano. La gente non ama il cinema, non ama il teatro, si annoia, chi più chi meno. Si dice che un'opera è buona quando annoia meno di un'altra, ma non diverte mai. Invece sarebbe divertente uscire dal teatro e trovare aperto un circo romano, con dei mirmidoni, dei gladiatori, che si prendono a sciabolate, si squartano sul serio. Questo sì che è spettacolo, è quello che vogliono, ed è quello che succede!…

Hanrez: Qualche tempo fa lei mi ha detto che il mondo occidentale manca di fede. Quale sarebbe a suo avviso la fede che noi potremmo ritrovare o ricreare?

Cèline: La questione è chiusa, finita. Non c'è più fede perché siamo troppo vecchi. Il mondo occidentale è consumato dalle guerre, dalle chiacchiere, dall'alcool. Da quando hanno piantato la prima vigna, cioè quattro o cinque secoli prima di Cristo, si può dire che la storia d'Europa sia finita… prima dei druidi! Non c'è più storia.

Hanrez: Qual è il popolo o la serie di popoli che ora farà la storia?

Cèline: Sarà difficile. Credo che toccherà a quel popolo che saprà astenersi dal bere e dal mangiare… saranno gli asceti. Ma non vedo nessun asceta in questo momento. Buddha è enorme, un commissario del popolo cinese ha un grosso posteriore, come quello di un arcivescovo. Commissario del popolo, arcivescovo o ministro, tutti cominciano coll'avere un grosso culo, guance gonfie, zanne escrescenze ovunque. Sì abbuffano… è quello che chiamano "mangiar bene"! E solo dopo si dichiarano pronti a tutto. Quando un capo di stato rimpiazza un altro capo di stato, quando un generale… quando un presidente della Repubblica incontra un altro presidente della Repubblica, si prepara un menù, e questo menù, viene pubblicato dai giornali. Il pubblico guarda e dice: "Ah! Ma guarda che leccornie ammirevoli, involtini di bue, piselli dorati… Ah, che leccornie, che leccornie!". Lei capisce, questo significa dare alla digestione - all'istinto di conservazione, di conseguenza - un importanza enorme, ed è proprio questo che uccide. L'istinto di conservazione, blandito, vezzeggiato dalla medicina che fa progressi tutti i giorni, come certo lei sa, la chirurgia ecc. Insomma la gente è inadatta, non riesco a immaginarmi dei nuovi asceti.

Hanrez: Quindi secondo lei la razza umana del futuro sarà una razza d'asceti?

Cèline: Ah! Unicamente una razza d'asceti! Degli asceti che faranno ogni sforzo per eliminare ogni tendenza alla trippaglia… Altrimenti sarà mostruosa. Se si cercasse di allevare dei maiali, come si allevano gli uomini nessuno li comprerebbe: dei maiali alcolizzati! Noi siamo allevati molto peggio dei maiali, molto peggio dei cani, delle anatre, dei polli… Nessuna specie vivente sopravviverebbe al regime seguito dagli umani.

Hanrez: Lei parla di questo istinto di conservazione che ci spinge ai limiti e che ci uccide, ma questo istinto è pur sempre legato a quello della riproduzione, perché per riprodursi bisogna conservarsi.

Cèline: Guardi l'istinto della riproduzione se la sbriga da solo, non ha davvero bisogno di noi. Basta che l'uomo abbia un'erezione, che scarichi i suoi due tre cm. di sperma - ed oltre, voglio essere generoso - e riesce a riprodursi. Questo avviene tranquillamente, è molto facile. Quanto alla donna è sufficiente ch'essa si presti alla bisogna… è fatto… Non ci si occupa di lei, fa dei bambini senza neanche accorgersene. Madri di famiglia che hanno compiuto il loro dovere coniugale, è tutto.

Hanrez: A proposito della donna nella sua opera, essa occupa un posto relativamente importante, ma l'amore e soprattutto l'amore sentimentale, non vi trova pressoché spazio. Questo accade perché lei lo nega, o perché pensa che è sottinteso, che non deve comparire in primo piano nel racconto?

Cèline: Non nego spazio all'amore, al contrario. Il fatto che due esseri si associno è una cosa molto rispettabile, direi molto normale, perché aiuta a resistere agli urti della vita, che sono innumerevoli. E' gentile, è piacevole, ma io non credo che questo argomento meriti troppa letteratura. Anzi le dirò che questa faccenda la considero perfino pesante e volgare. "Io ti amo" sono parole abominevoli, che, per quanto mi riguarda, non ho mai adoperato, perché una cosa così non si può esprimere, la si sente e basta. Un po’ di pudore non guasta. Queste cose esistono, ma si dicono una volta al secolo, all'anno… non tutti i giorni come nelle canzonette.

Hanrez: Nel "Viaggio al termine della notte", si sente che il protagonista viene fortemente attratto dalla donna (penso alle diverse donne che egli incontra e specialmente alle due americane), ma questa attrazione non si esprime attraverso le parole "io ti amo" ecc. Lei pensa che questa attrazione che è alla base dell'amore non debba essere espressa in parole

Cèline: Non vedo perché. E' un sentimento, è un atto, Dio mio, abbastanza bestiale - e bestiale bisogna che sia! Contornarlo di fiorellini mi sembra volgare. Il cattivo gusto consiste precisamente nel mettere dei fiori laddove non ve n'è alcun bisogno. Sono cose che si possono anche fare… ma non è essenziale. Lei entra in un delirio, il coito è un delirio: razionalizzare questo delirio con delle manovre verbali, mi sembra idiota.

Hanrez: Lei considera dunque il coito come l'atto supremo, il compimento dell'amore?

Cèline: L'amore è un modo di dire: è l'atto della riproduzione. Non ha storia ci è stato dato. E' un premio che la natura dà al coito per la riproduzione: dà al brav'uomo un orgasmo di qualche secondo che lo mette in comunicazione con lei. Alla brava donna niente, non è importante.

Hanrez: Come in certe credenze induiste lei pensa che nel momento del delirio si entra in comunicazione con la natura.

Cèline: Evidentemente… Mistico, non so… Dare un premio al brav'uomo affinché si senta trasportato in un mondo che non conosce, il mondo della natura…

Hanrez: Lei crede che esistano degli altri mezzi oltre al delirio per raggiungere questa conoscenza, questa specie d'accoppiamento con la natura?

Cèline: E' molto potente. Non c'è niente da dire alla natura. Essa è suprema, perché ci piazza là, poi ci riprende. Dico che gli uomini hanno una sorte molto difficile e dolorosa, perché in fondo la natura si fa beffe di loro. Come dice La Rochefoucauld: "Essi non si sentono nascere. Soffrono per morire e aspettano di vivere". E' così: aspettano di vivere, ma in verità non vivono mai… Capiscono di morire e soffrire per la maggior parte del tempo (il 99 per cento). Aspettano la pensione, aspettano una promozione, aspettano la laurea, aspettano sempre qualcosa. Aspettano l'essere amato, poi hanno qualche mese di delirio, qualche crisi di coito, e poi tornano ai loro numerosi obblighi, più infelici ancora quando si occupano degli altri, chiusi in un eterno egoismo. La loro sorte non è certo divertente!

Hanrez: Ci sarebbe dunque negli uomini un'impotenza a cogliere il momento, a godersi la vita così come si presenta in un momento particolare.

Cèline: Si. L'uomo non è un animale, visto che conosce il proprio avvenire. E perciò ha paura, giustamente, di ciò che lo aspetta. La bestia non lo sa, soffre quando le capita qualcosa, ma non prevede, o prevede poco, come il cavallo prima di essere abbattuto. La bestia che uno uccide sente di morire, ma solo per brevissimo tempo, mentre l'uomo già sessant'anni prima cerca di farsi un'idea di quello che lo aspetta. Gli studi di medicina lo informano mirabilmente sulla vita. Queste cose lo incupiscono. Egli allora corregge i suoi pensieri lucidi con l'alcool e il mangiare, i viaggi, l'auto, insomma le diverse tecniche per ingannare la sua lucidità… Egli non è più lucido. Va alle accademie, al teatro. La sua testa si distrae - all'opposto di quello che cercano di fare i religiosi. Gli si ripete tutto il tempo: "Attenzione! Non è questa la realtà della morte!". Insomma invecchia nella sua tomba (il compito dell'uomo è evidentemente di dormire nella sua bara tutte le sere).

Hanrez: Secondo lei, dunque, un pensiero lucido è un pensiero escatologico, essenzialmente.

Cèline: Essenzialmente. Egli non può che accettare la propria sorte, pensare al proprio padre, alla madre, ai fratelli, ai cugini…

Hanrez: E' un pensiero che lei ha già espresso all'inizio di "Morte a credito", quando parla della morte della sua portinaia. Del resto in tutte le sue opere si capisce che per lei è un problema molto importante.

Cèline: E' il principale problema dell'uomo.

Hanrez: Ma ci sono due modi, credo, di considerare il problema della morte: sia come una paralisi dell'azione e del pensiero, sia come uno stimolante. Ci sono persone che, nella loro maniera di considerare la morte e la sua prospettiva, giungono a non agire più, non osano più agire. Suppongo che lei non sia tra questi, no?

Cèline: Ho sempre avuto un temperamento da medico, specie nel considerare il problema della morte; la mia vocazione non era letteraria. Alla sua età ed anche quando ero più giovane, avevo la vocazione del medico (nella mia miseria, perché ero molto povero) che consiste essenzialmente nel rendere la vita più facile agli altri. La mia pratica, se vuole, è una mistica - la sola che abbia - e non m'è riuscita!… E' una specie di ideale da "buona sorella" che avevo: darmi interamente al conforto dei malati.

Hanrez: Nella sua giovinezza, lei ha ricevuto un'educazione cristiana?

Cèline: Ho fatto la mia prima comunione, come la fanno tutti a una certa età, poi l'apprendistato presso i padroni; a undici anni era tutto finito. Non posso dire che fossi posseduto dalla religione. Ero posseduto dalla medicina. Non ero disperato. Del resto la vita non la si considera sempre nello stesso modo: a venti, quindici o tredici ani non si vede la morte, non ci si pensa. Si pensa solo alla vita e la si vuole rendere più facile… Ero un bravo ragazzo, niente di più. Mi occupavo soprattutto di medicina, che mi interessava; e poi sono arrivato alla letteratura come lei sa… E' stato un passaggio inatteso.

Hanrez: Ma un passaggio che lei ha preso sul serio.

Cèline: Solo perché mi hanno reso impossibile seguire la medicina. Non si possono fare dei libri e allo stesso tempo… non sarebbe serio. Oggi tutto è cambiato. Il medico che s'interessa di tutto non esiste più. Oggi, o si diventa specialisti o niente. Ma ai miei tempi era ancora possibile. Un brav'uomo che fa dei libri! Mi è sempre parsa un'idea comica, quella di un tizio che si siede a un tavolo e comincia a tracciare sulla carta dei pensieri. La trovo un'attività immodesta, impudica. Questo modo di guardare la storia non lo trovo serio, e pur tuttavia continuo… Del resto ora non me ne frega più niente, non importa più niente. Ecco.

domenica 19 ottobre 2008

GOMORRA, Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra.


Già, ci sono anche i punti esclamativi. Persone che vengono al mondo dritte, dure, ma senza perdere la tenerezza, la sensibilità, che tanto li rende umani. Nati dritti per filare dritti sull'obbiettivo... azzannarlo alla gola, l'obbiettivo, con la rabbia e la fame di chi ha ancora qualcosa che si muove dentro. Nessuna distrazione, nessuna sosta. E' che si nasce con il tarlo, con quella strana pulsione al bene, al voler resistere. Con l'urgenza di dire e/o fare qualcosa.

"Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".

Roberto Saviano è solo un uomo che si è caricato sulle spalle il peso di una regione, dei suoi abitanti e delle loro nefandezze e le ha trasportate sotto la luce dei riflettori, agli occhi di tutti, col solo scopo di reagire, di far sbocciare un fiore, un fiore che s'aspetta da tempo, da questa montagna di merda. Ora questa schiena, questa pubblica schiena sulla quale affidarsi e affidare i propri, troppi, silenzi, sta per cedere. Crack tra poco in diretta sul tuo schermo. Roberto Saviano, nato a Napoli nel 1979, ha solo ventinove anni appena compiuti. Dal 13 ottobre 2006, in seguito al successo del suo libro Gomorra, vive sotto scorta, come un pacco postale, per via delle minacce piovute in aula, durante il Processo Spartacus, dalla vescica dei "boss/uomini di merda" Antonio Iovine e Francesco Bidognetti.

Roberto Saviano è tutto quello che io non sono ed è per questo che mi sento di ringraziarlo. Tutti a Napoli sanno qual è la faccia della camorra. Tutti. Solo Roberto Saviano ha avuto la forza, il coraggio, la spregiudicatezza, di riempire 331 pagine di nomi e fatti scritti nella realtà col sangue del mondo e trascriverli su foglio col proprio sangue, con la propria rinuncia alla vita.

Cesare Pavese scrisse che la passione è una cosa scomoda. Roberto Saviano sta scomodo, io scrivo dal divano di casa, seduto. Non ho nessun mirino puntato alla tempia. Sento che sto sbagliando in qualcosa...